TIZIANO TERZANI un grande giornalista , e scrittore
qualche giorno fa mi è capitato di leggere questo articolo di Tiziano Terzani ,scritto qualche giorno dopo l'attacco alle torri gemelle,vale la pena rileggerlo.
Il
mondo non si può dividere
tra
chi sta con noi e chi contro
Noi scrittori abbiamo la responsabilità di creare
campi di comprensione, non di battaglia
Il «contraccolpo» dell’attacco alle Torri Gemelle
ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo:
fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953,
seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la
conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in
particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam.
Secondo Chalmers Johnson sarebbe stata questa politica americana
«a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti
sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento
anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli
Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’analisi di Johnson, è
evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel
Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva
preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici»,
qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la
trappola. L’occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra
dipendenza economica dal petrolio?
Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già
fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci
eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed
odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che
ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque
contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari
salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai
trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche—tutti lo
sanno — sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche
tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo
sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo
Paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura
intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale
(vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente,
alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei Paesi del
Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi
giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili»
talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per
trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal,
con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col
Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque
possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la
democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre
considerazioni meno altisonanti,ma non meno determinanti.
È per questo che nell’America stessa alcuni
intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli
interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria
bellica—combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al
potere a Washington — finisca per determinare in un unico senso le future
scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del Paese, in
ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie
libertà che rendono l’America così particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia
stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se
l’aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i
terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento
da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato
queste preoccupazioni.
L’aver diviso il mondo in maniera—mi pare—«talebana», fra
«quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i
presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già
sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali,
funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o
loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi
lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana—anche a colpi di sputo—alle
«cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso
senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo
della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere
togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte
chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma
penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci
porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un
crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo
«ufficiale» della politica e dell’establishment mediatico, c’è
stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America ci mettesse già
paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore
di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante
simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche
lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici — me ne rendo conto — è un momento
difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno
che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un
piccolo conflitto di interessi terreni, si ritrova ora alle prese con un enorme
conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di
Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e
non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter
stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi
responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di
dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di
battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora
alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito
proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel
che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la
quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di
immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue
argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro
Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo
intollerante, saranno migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a
lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura
leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che
ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano
l’inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di
questo nostro Paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono
solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi,
console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di
artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di
statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i
santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme».
Dove
sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci
rivorrebbe un San Francesco.
Estratto da «Il sultano e San Francesco», pubblicato sul
Corriere della Sera l'8 ottobre 2001
Tiziano Terzani
11 settembre 2011
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