sabato 29 settembre 2012



Tu trascorri la tua vita aspettando un momento che non arriverà mai, non perdere il tuo tempo ad aspettare.
Bruce Springsteen
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venerdì 21 settembre 2012

giovedì 20 settembre 2012

La solitudine - Trilussa

Quand'ero ragazzino, mamma Mia
Me diceva: "Ricordati fijolo,
Quando te senti veramente solo
Tu prova a recità 'n' Ave Maria
L'anima tua de sola spicca er volo
E se solleva, come pe' maggia".
Ormai so' vecchio, er tempo m'è volato;
da un pezzo s'è addormita la vecchietta,
Ma quer consijo nun l'ho mai scordato.
Come me sento veramente solo
Io prego la Madonna benedetta
E l'anima da sola pija er volo!
(Trilussa)magazzine

foto a caso





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Pablo Neruda

Neruda

Mi piaci quando taci perché sei come assente,
e mi ascolti da lungi e la mia voce non ti tocca.
Sembra che gli occhi ti sian volati via
e che un bacio ti abbia chiuso la bocca.
Poiché tutte le cose son piene della mia anima
emergi dalle cose, piene dell'anima mia.
Farfalla di sogno, rassomigli alla mia anima,
e rassomigli alla parola malinconia.
Mi piaci quando taci e sei come distante.
E stai come lamentandoti, farfalla turbante.
E mi ascolti da lungi, e la mia voce non ti raggiunge:
lascia che io taccia col tuo silenzio.
Lascia che ti parli pure col tuo silenzio
chiaro come una lampada, semplice come un anello.
Sei come la notte, silenziosa e costellata.
Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice.
Mi piaci quando taci perché sei come assente.
Distante e dolorosa come se fossi morta.
Allora una parola, un sorriso bastano.
E son felice, felice che non sia così.

(Pablo Neruda
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sabato 15 settembre 2012

attualità

nocensura.com: I Medici di "Sanità in Rete" criticano il governo ...: di "GRUPPO MEDICO SANITA' IN RETE" LETTERA APERTA In risposta ai numerosi articoli pubblicati di recente sulle principali testate italiane... magazzine

sabato 8 settembre 2012

aforismi poesie





Ci sono cose che non puoi vedere
con gli occhi:
devi vederle con il cuore
e questo non è facile.
Se ritrovi lo spirito della giovinezza
dentro di te,
con i ricordi di adesso e i sogni di allora,
potrai farlo rivivere
e cercare una strada nell'avventura
che chiamiamo vita,
verso un destino migliore.
E il tuo cuore non sarà mai stanco
né vecchio...

-                                                          - Sergio Bambarén
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Siamo come candele accese.

Il rosso della fiamma non è l’unico colore, ma solo il più esterno e visibile. Ci sono anche il giallo e il blu: alla base, intorno allo stoppino.



Allo stesso modo in noi convivono tre livelli di “combustione”: il rosso delle passioni all’esterno, il giallo delle emozioni e, alla base, il blu dello spirito.

Chi passa la vita a inseguire passioni per provare emozioni fa una cosa molto vitale, ma insufficiente ed è per questo che rischia di rimanere sempre inappagato.

Per trarre dai sensi tutto ciò che possono darti, occorre lavorare sullo strato più profondo e nascosto. Imparare a cercare risposte all’interno e non all’infuori di te. Altrimenti sarai sempre vittima delle circostanze e degli ondeggiamenti emotivi altrui.

“Cuori allo specchio”, Massimo Gramellini

giovedì 6 settembre 2012

tiziano terzani

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                                        Tiziano Terzani

un capitolo del suo ultimo libro ,   Un ultimo giro di giostra
          



IL SUO ULTIMO LIBRO
Luci di un'alba a New York
dove la felicità non è di casa
«Avevo l'impressione che a goderci la bellezza di Manhattan eravamo davvero in pochi»

di Terzani Tiziano

L'11 marzo 2004, il Corriere aveva anticipato un capitolo di «Un altro giro di giostra», l'ultimo libro di Terzani. Lo scrittore racconta il suo viaggio in America, dove era andato per curarsi

In India si dice che l'ora più bella è quella dell'alba, quando la notte aleggia ancora nell' aria e il giorno non è ancora pieno, quando la distinzione fra tenebra e luce non è ancora netta e per qualche momento l' uomo, se vuole, se sa fare attenzione, può intuire che tutto ciò che nella vita gli appare in contrasto, il buio e la luce, il falso e il vero non sono che due aspetti della stessa cosa. Sono diversi, ma non facilmente separabili, sono distinti, ma «non sono due». Come un uomo e una donna, che sono sì meravigliosamente differenti, ma che nell' amore diventano Uno.
Quella è l' ora in cui in India - si dice - i rishi, «coloro che vedono», meditano solitari nelle loro remote caverne di ghiaccio nell' Himalaya caricando l' aria di energie positive e permettendo così anche ai principianti di guardare, appunto in quell' ora, dentro di sé, alla ricerca della spiegazione di tutto.

Non so dove meditassero i rishi americani, ma l'alba era anche per me a New York l'ora più bella, quella in cui davvero l'aria mi pareva più carica di qualcosa di buono e di speranza. Certo era così perché i primi, rassicuranti bagliori del nuovo sole scioglievano, specie per un ammalato, le paure della notte, ma anche perché, affondata ancora in un relativo silenzio, la città, senza le folle dei suoi abitanti, era al suo poetico meglio: con le cartacce che svolazzavano come gabbiani per le grandi, dritte strade deserte, qualche raro taxi che lentamente andava in cerca di un primo cliente e i barboni ancora raggomitolati nelle loro coperte sui bocchettoni di sfiato della metropolitana. Misteriosi buchi qua e là nell' asfalto soffiavano in aria strane colonne di vapore bianco, come fossero le narici dei draghi ancora addormentati nelle viscere calde di quello straordinario cuore di New York che è Manhattan.

Nella doppia luce di quell' ora la città stessa sembrava meditabonda, raccolta su di sé, concentrata sul suo essere, prima di diventare il campo di battaglia delle infinite guerre che ogni giorno si celebrano sulle scrivanie e nei letti dei suoi palazzi, ai tavoli dei suoi ristoranti, per le strade e nei suoi parchi: guerre di sopravvivenza, di potere, di avidità.

New York mi piaceva moltissimo. Adoravo, quando ero in forze, attraversarla in lungo e in largo, a piedi, a volte per ore di seguito. Ma mi era anche impossibile in certi momenti non sentire il carico di lavoro, di dolore e sofferenza che ogni suo grattacielo rappresentava. Guardavo il Palazzo delle Nazioni Unite e pensavo a quante parole e quante menzogne, a quanto sperma e quante lacrime venivano versate nell' inutile tentativo di gestire una umanità che non può essere gestita, perché il solo principio che la domina è quello dell' ingordigia e perché ogni individuo, ogni famiglia, ogni villaggio o nazione pensa solo al suo e mai al nostro. Camminavo davanti al Plaza Hotel, passavo davanti al Waldorf Astoria, i grandi, famosi alberghi di New York, dove sono scesi e scendono ancora i dittatori, i capi di Stato e di governo, le spie e i rispettabili assassini di mezzo mondo, e ripensavo alle decisioni prese, ai complotti che, orditi in quelle stanze, hanno cambiato i destini di vari Paesi rovesciandone i regimi, uccidendone gli oppositori o facendo sparire nel nulla qualche dissidente prigioniero.

Guardavo le insegne delle banche, le bandiere che sventolavano sugli edifici delle grandi società di varie nazionalità e di vari intenti, ma tutte, immancabilmente, con radici qui e immaginavo come qualche signore incravattato - uno per il quale nessuno ha votato, del quale i più non han mai sentito pronunciare il nome, uno che sfugge al controllo di tutti i parlamenti e di tutti i giudici del mondo - avrebbe da lì a qualche ora deciso, in nome del sacrosanto principio del profitto, di ritirare miliardi di dollari investiti in un Paese per metterli in un altro, condannando così intere popolazioni alla miseria.

La razionale follia del mondo moderno era tutta concentrata lì, in quei pochi, meravigliosi, vitali chilometri quadrati di cemento fra l'East River e l'Hudson, sotto un cielo terso, sempre pronto a riflettere l' increspato splendore delle acque. Quello era il cuore di pietra del dilagante, disperante materialismo che sta cambiando l' umanità; quella era la capitale di quel nuovo, tirannico impero verso il quale tutti veniamo spinti, di cui tutti stiamo diventando sudditi e contro il quale, istintivamente, ho sempre sentito di dovere, in qualche modo, resistere: l'impero della globalizzazione.
E proprio lì, lì nel centro ideologico di tutto quel che non mi piace, ero venuto a chiedere aiuto, a cercare salvezza! E non era la prima volta. A trent' anni c' ero arrivato, frustrato da cinque anni di lavoro nell' industria, per rifarmi una vita come la volevo. Ora c' ero tornato per cercare di guadagnare tempo sulla scadenza di quella vita. Anche la prima volta avevo sentito forte la profonda contraddizione fra la naturale gratitudine per ciò che l' America mi dava - due anni di libertà pagata per studiare la Cina e il cinese alla Columbia University per prepararmi a partire da giornalista in Asia - e il disprezzo, il risentimento, a volte l' odio, per ciò che l' America altrimenti rappresentava.

Quando nel 1967 Angela e io, entusiasti, sbarcammo a New York dalla Leonardo da Vinci che ci aveva presi a bordo una settimana prima a Genova, l' America cercava, con una guerra sporca e impari, di imporre la sua volontà a un misero popolo asiatico armato solo della sua cocciutaggine: il Vietnam. Ora l' America, con una ben più sofisticata, meno visibile e per questo meno resistibile aggressione, stava cercando di imporre al mondo - assieme alle sue merci - i suoi valori, le sue verità, le sue definizioni di buono e di giusto, di progresso e... di terrorismo.

A volte, vedendo entrare e uscire dai grandi, famosi edifici della Quinta Strada o di Wall Street eleganti signori con le loro piccole valigette di bel cuoio, mi veniva il sospetto che quelli fossero gli uomini da cui bisognava guardarsi e proteggersi. In quelle borse, camuffati come «progetti di sviluppo», c' erano i piani per dighe spesso inutili, per fabbriche tossiche, per centrali nucleari pericolose, per nuove, avvelenanti reti televisive che, una volta impiantate nei Paesi a cui erano destinate, avrebbero fatto più danni e più vittime di una bomba. Che fossero loro i veri «terroristi»?

Con le strade che si popolavano subito dopo l'alba, New York perdeva ai miei occhi la sua aria incantata e a volte mi appariva come una mostruosa accozzaglia di tantissimi disperati, ognuno in corsa dietro a un qualche sogno di triste ricchezza o misera felicità.
Alle otto la Quinta Strada, a sud di Central Park, a un passo da casa mia, era già piena di gente. Zaffate di profumi da aeroporto mi riempivano il naso a ogni donna che, correndo col solito cartoccio della colazione in mano, mi sfiorava per entrare in uno dei grattacieli. Che modo di cominciare una giornata! (...)
La folla a quell' ora era di gente per lo più giovane, bella e dura: una nuova razza cresciuta nelle palestre e alimentata nei Vitamin-shops. Alcuni uomini più anziani mi pareva di averli già visti in Vietnam, allora ufficiali dei marines, e ora, sempre dritti e asciutti nell' uniforme di businessman, sempre «ufficiali» dello stesso impero, impegnati a far diventare il resto del mondo parte del loro villaggio globale.

Quando stavo a New York la città non era ancora stata ferita dall' orribile attacco dell' 11 settembre e le Torri gemelle spiccavano snelle e potenti nel panorama di Downtown, ma non per questo, anche allora, l' America era un Paese in pace con se stesso e col resto del mondo. Da più di mezzo secolo gli americani, pur non avendo mai dovuto combattere a casa loro, non hanno smesso di sentirsi, e spesso di essere, in guerra con qualcuno: prima col comunismo, con Mao, con i guerriglieri in Asia e i rivoluzionari in America Latina; poi con Saddam Hussein e ora con Osama bin Laden e il fondamentalismo islamico. Mai in pace. Sempre a lancia in resta. Ricchi e potenti, ma inquieti e continuamente insoddisfatti.
Un giorno, nel New York Times mi colpì la notizia di uno studio fatto dalla London School of Economics sulla felicità nel mondo. I risultati erano curiosi: uno dei Paesi più poveri, il Bangladesh, risultava essere il più felice. L' India era al quinto posto. Gli Stati Uniti al quarantaseiesimo!

A volte avevo l' impressione che a goderci la bellezza di New York eravamo davvero in pochi. A parte me, che avevo solo da camminare, e qualche mendicante intento a discutere col vento, tutti gli altri che vedevo mi parevano solo impegnati a sopravvivere, a non farsi schiacciare da qualcosa o da qualcuno. Sempre in guerra: una qualche guerra.

Una guerra a cui non ero abituato, essendo vissuto per più di venticinque anni in Asia, era la guerra dei sessi, combattuta in una direzione soltanto: le donne contro gli uomini. Seduto ai piedi di un grande albero a Central Park, le stavo a guardare. Le donne: sane, dure, sicure di sé, robotiche. Prima passavano sudate, a fare il loro jogging quotidiano in tenute attillatissime, provocanti, con i capelli a coda di cavallo; più tardi passavano vestite in uniforme da ufficio - tailleur nero, scarpe nere, borsa nera con il computer - i capelli ancora umidi di doccia, sciolti. Belle e gelide, anche fisicamente arroganti e sprezzanti. Tutto quello che la mia generazione considerava «femminile» è scomparso, volutamente cancellato da questa nuova, perversa idea di eliminare le differenze, di rendere tutti uguali e fare delle donne delle brutte copie degli uomini

9 luglio 2004 

                                 TIZIANO  TERZANI   un grande giornalista  , e  scrittore 



             

qualche giorno fa mi è capitato di leggere questo articolo di Tiziano  Terzani ,scritto qualche giorno dopo l'attacco alle torri gemelle,vale la pena rileggerlo.



Il mondo non si può dividere 
tra chi sta con noi e chi contro
Noi scrittori abbiamo la responsabilità di creare 
campi di comprensione, non di battaglia


Il «contraccolpo» dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam.
Secondo Chalmers Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’analisi di Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio?
Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche—tutti lo sanno — sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo Paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei Paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti,ma non meno determinanti.
È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica—combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington — finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del Paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.
L’aver diviso il mondo in maniera—mi pare—«talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana—anche a colpi di sputo—alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici — me ne rendo conto — è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni, si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro Paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme».
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco.

Estratto da «Il sultano e San Francesco», pubblicato sul Corriere della Sera l'8 ottobre 2001

Tiziano Terzani
11 settembre 2011

aforismi ,poesie

Pablo Neruda premio nobel 1971

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Io andavo lungo il sentiero, tu venivi. Il mio amore cadde tra le tue braccia... Il tuo amore tremò nelle mie
 Pablo Neruda

1Medaglia del Premio Nobel Nobel per la letteratura 1971

mercoledì 5 settembre 2012

farfalla blu

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piccola storia


Un giorno un uomo per caso si fermò ad osservare un piccolo foro in un bozzolo; vide una farfalla che si sforzava di uscire da un piccolo buco.


Dopo molto tempo, sembrava si fosse arresa, mentre il buco appariva essere della stessa dimensione. Sembrava ormai che essa avesse fatto tutto quello che poteva e non le restassero altre possibilità di uscire dal bozzolo.
Allora l'uomo decise di aiutare la farfalla: prese un temperino, aprì il bozzolo permettendo alla farfalla di uscire immediatamente.





Il suo corpo però era piccolo e rattrappito e le sue ali si muovevano a stento.

L'uomo continuava ad osservare con attenzione, perchè sperava che da un momento all'altro le ali della farfalla si sarebbero aperte, ed avrebbe potuto cominciare a volare...



...ma non successe nulla di tutto questo, in quanto la farfalla passò il resto della sua vita a trascinarsi per terra, con un corpo rattrappito e le ali poco sviluppate. Così non riuscì mai a volare.


Ciò che quell'uomo non aveva capito, nonostante la sua gentilezza, era che lo sforzo per uscire dallo stretto buco del bozzolo è indispensabile alla farfalla, affinché possa trasmettere il fluido dal suo corpo alle sue ali. La natura le aveva assegnato questa forma, per potersi sviluppare.


Molte volte gli sforzi che dobbiamo fare, rappresentano esattamente ciò che è necessario affrontare per affermarci nella nostra esistenza. Se non incontrassimo ostacoli, non avremmo la possibilità di diventare forti come invece siamo e non potremmo mai volare, proprio come quella farfalla.

Vivi la vita senza paura, affronta tutti gli ostacoli e dimostra che puoi superarli.

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