sabato 23 giugno 2012

una splendida poesia di Martha Medeiros

magazzine                                         Ode alla vita

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine,
 ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
 chi non cambia la marcia,
 chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
 chi non parla a chi non conosce.
 Muore lentamente chi evita una passione,
 chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
 proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
 quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
 quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.
 Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi e' infelice sul lavoro,
 chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno,
 chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia,
 chi non legge,
 chi non ascolta musica,
 chi non trova grazia in se stesso.
 Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
 chi non si lascia aiutare;
 chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. 
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
 chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
 chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
 Evitiamo la morte a piccole dosi,
 ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. 
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.

venerdì 22 giugno 2012

poesia A.Merini



magazzine   Silenzio di donna                                                                                                                                                                Volarono via di qui molte facce e molti sguardi si chiusero nelle serrature, molti vivono solo in una parola di ferro e qualcuno si ghiaccia nudo seduto su un ricordo, gli amori son tutti stampati dalla polvere. Si costruiscono case che sono solo avventure fallite. L'amore è un soffitto senza lucernario dove qualcuno canta la notte vuota e si continua a vivere solo perché qualcuno ancora ci ricorda."Alda Merini

domenica 10 giugno 2012

il gattopardo

magazzine                                      Il Gattopardo
Questo è un famoso brano del libro Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ambientato nel 1860, al tempo dell’unificazione dell’Italia. E’ il dialogo tra il protagonista, il nobile Don Fabrizio principe di Salina, e il nipote Tancredi: quest’ultimo, arruolatosi con Garibaldi, con la sua celebre frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, esprime la convinzione che per i nobili è molto meglio appoggiare la monarchia dei Savoia e cacciare i Borbone ormai sconfitti che rischiare l’avvento di una repubblica. Col tempo, la frase è diventata un motto molto citato.
Il Gattopardo, film di Luchino Visconti
La mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato. Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si faceva la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò[1] posava il testone pesante sulla sua pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro, distinto, con un’espressione di timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi. – Tancredi, cosa hai combinato la notte scorsa? – Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una notte santa. Non comecerte conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo. – Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. – E chi erano queste conoscenze, si può sapere? – Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini! – Era davvero troppo insolente, credeva di poter permettersi tutto. Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. Il Principe si sentì offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l’animo di rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. – Ma perché sei vestito così? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina? – Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. – Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti. – Il povero Salina si sentì stringere il cuore. – Un duello? – Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi[2]. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo[3]. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebberosubito, se vi restassi. – Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. – Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri[4] dev’essere con noi, per il Re. – Gli occhi ripresero a sorridere. – Per il Re, certo, ma per quale Re? – Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. – Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato? – Abbracciò lo zio un po’. – Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore. – La retorica degli amici aveva stinto un po’ anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale vi era un accento che smentiva l’enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a sorvegliare la digestione di “Guiscardo!”[5]. Questo era il figlio suo vero. Don Fabrizio si alzò in fretta, si strappò l’asciugamani dal collo, frugò in un cassetto. – Tancredi, Tancredi, aspetta – corse dietro al nipote, gli mise in tasca un rotolino di «onze»[6] d’oro, gli premette laspalla. Quello rideva: – Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto; e tanti abbracci alla zia. – E si precipitò giù per le scale

vecchioni samarcanda

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venerdì 8 giugno 2012

farfalla azzurra

magazzine            farfalla azzurra





Piccola, azzurra aleggia

una farfalla, il vento la agita,

un brivido di madreperla

scintilla, tremola, trapassa.

Così nello sfavillio d’un momento,

così nel fugace alitare,

vidi la felicità farmi un cenno

scintillare, tremolare, trapassare.



Foto
 Herman Hesse

sabato 2 giugno 2012

i libri

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                                  i libri sono specchi.riflettono ciò che abbiamo dentro
                                                  Carlos Ruiz Zafòn