domenica 10 giugno 2012

il gattopardo

magazzine                                      Il Gattopardo
Questo è un famoso brano del libro Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ambientato nel 1860, al tempo dell’unificazione dell’Italia. E’ il dialogo tra il protagonista, il nobile Don Fabrizio principe di Salina, e il nipote Tancredi: quest’ultimo, arruolatosi con Garibaldi, con la sua celebre frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, esprime la convinzione che per i nobili è molto meglio appoggiare la monarchia dei Savoia e cacciare i Borbone ormai sconfitti che rischiare l’avvento di una repubblica. Col tempo, la frase è diventata un motto molto citato.
Il Gattopardo, film di Luchino Visconti
La mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato. Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si faceva la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò[1] posava il testone pesante sulla sua pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro, distinto, con un’espressione di timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi. – Tancredi, cosa hai combinato la notte scorsa? – Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una notte santa. Non comecerte conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo. – Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. – E chi erano queste conoscenze, si può sapere? – Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini! – Era davvero troppo insolente, credeva di poter permettersi tutto. Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. Il Principe si sentì offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l’animo di rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. – Ma perché sei vestito così? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina? – Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. – Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti. – Il povero Salina si sentì stringere il cuore. – Un duello? – Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi[2]. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo[3]. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebberosubito, se vi restassi. – Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. – Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri[4] dev’essere con noi, per il Re. – Gli occhi ripresero a sorridere. – Per il Re, certo, ma per quale Re? – Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. – Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato? – Abbracciò lo zio un po’. – Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore. – La retorica degli amici aveva stinto un po’ anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale vi era un accento che smentiva l’enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a sorvegliare la digestione di “Guiscardo!”[5]. Questo era il figlio suo vero. Don Fabrizio si alzò in fretta, si strappò l’asciugamani dal collo, frugò in un cassetto. – Tancredi, Tancredi, aspetta – corse dietro al nipote, gli mise in tasca un rotolino di «onze»[6] d’oro, gli premette laspalla. Quello rideva: – Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto; e tanti abbracci alla zia. – E si precipitò giù per le scale

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