magazzine Il
Gattopardo
Questo è un famoso brano del libro Il
Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
ambientato nel 1860, al tempo dell’unificazione dell’Italia. E’ il dialogo tra
il protagonista, il nobile Don Fabrizio principe di Salina, e il nipote
Tancredi: quest’ultimo, arruolatosi con Garibaldi, con la sua celebre frase “Se
vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, esprime la
convinzione che per i nobili è molto meglio appoggiare la monarchia dei Savoia
e cacciare i Borbone ormai sconfitti che rischiare l’avvento di una repubblica.
Col tempo, la frase è diventata un motto molto citato.
Il
Gattopardo, film di Luchino Visconti
La mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato.
Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si faceva
la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò[1] posava il testone pesante
sulla sua pantofola. Mentre si radeva la guancia destra
vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto,
un volto magro, distinto, con un’espressione di timorosa beffa. Non si voltò e
continuò a radersi. – Tancredi, cosa hai combinato la notte scorsa? – Buon
giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli
amici. Una notte santa. Non comecerte conoscenze mie che
sono state a divertirsi a Palermo. – Don Fabrizio si applicò a radere bene quel
tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente
nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era
impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito.
Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in
tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. – E chi erano queste
conoscenze, si può sapere? – Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al
posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle
cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini! –
Era davvero troppo insolente, credeva di poter permettersi tutto. Attraverso le strette
fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i
suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. Il Principe si sentì offeso: questo qui
veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l’animo di
rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. – Ma perché sei vestito così? Cosa
c’è? Un ballo in maschera di mattina? – Il ragazzo divenne serio: il
suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. – Parto,
zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti. – Il povero Salina si sentì
stringere il cuore. – Un duello? – Un grande duello, zio. Contro
Franceschiello Dio Guardi[2]. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a
nessuno, soprattutto non a Paolo[3]. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio
restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebberosubito,
se vi restassi. – Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una
crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per
terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. – Sei pazzo,
figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e
imbroglioni. Un Falconeri[4] dev’essere con noi, per il Re. – Gli occhi ripresero
a sorridere. – Per il Re, certo, ma per quale Re? – Il ragazzo ebbe una delle
sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. – Se non ci siamo
anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga
come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato? – Abbracciò lo zio un po’. –
Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore. – La retorica degli
amici aveva stinto un po’ anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale vi
era un accento che smentiva l’enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello
stesso tempo il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento
stava certo a sorvegliare la digestione di “Guiscardo!”[5]. Questo era il
figlio suo vero. Don Fabrizio si alzò in fretta, si strappò l’asciugamani dal
collo, frugò in un cassetto. – Tancredi, Tancredi, aspetta – corse dietro al
nipote, gli mise in tasca un rotolino di «onze»[6] d’oro, gli premette laspalla. Quello rideva: –
Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto; e tanti abbracci
alla zia. – E si precipitò giù per le scale
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